di Adalberto Bortolotti *
Più volte l'Argentina si era candidata a ospitare il Campionato del Mondo, ma si era vista sempre penalizzare a causa o delle precarie condizioni economiche o dell'instabilità politica. Avanzata sin dal 1966, la sua richiesta di organizzare l'undicesima edizione, in programma nel 1978, aveva ricevuto una prima conferma nel congresso FIFA del 1970 a Città del Messico, per essere avallata in via definitiva all'assise di Monaco 1974, in coincidenza dei Mondiali tedeschi. Nel 1973, il ritorno al potere di Juan Domingo Perón aveva portato un'apparente tregua sociale e politica nel paese, sicché i massimi dirigenti calcistici si erano convinti che fosse finalmente arrivata l'occasione favorevole. Da quel momento, però, gli avvenimenti erano precipitati. Nel luglio del 1974 era morto Perón, e subito dopo, in un contesto di violenza e disordini dilaganti, un colpo di Stato aveva portato al potere il generale Jorge Rafael Videla. Mancavano appena due anni all'appuntamento con la Coppa del Mondo e l'Argentina non si era ancora attivata sul piano organizzativo e delle strutture. Tuttavia il nuovo regime non volle perdere la possibilità di utilizzare l'evento per finalità propagandistiche offrendo al mondo un'immagine sapientemente edulcorata, da contrapporre a quella che gli organi d'informazione internazionali diffondevano sui suoi crimini e le sue crudeltà.
L'episodio rimasto nella cronaca con la pittoresca definizione di mamelada peruana (ovvero la benevola concessione, da parte del Perù all'Argentina, di una vittoria tanto larga da superare il Brasile nella differenza reti) fu la vistosa punta dell'iceberg. Ciò non sarebbe stato sufficiente, però, se l'Argentina non avesse messo in campo una squadra di buon livello, forte di una preparazione mai così accurata e puntigliosa sotto la guida del commissario tecnico Luís Cesar Menotti che, dietro la promessa del trionfo finale, aveva ottenuto carta bianca. Peraltro, tutte le volte che si rese necessario un aiuto, a cominciare dai primi duri passi con Ungheria e Francia, l'aiuto puntualmente arrivò.
La rivelazione, in chiave tecnica, del Mundial argentino fu però l'Italia, penalizzata da un quarto posto che alla vigilia sarebbe stato sottoscritto con entusiasmo, ma che alla prova dei fatti risultò chiaramente inadeguato ai meriti. Dopo l'insuccesso di Stoccarda e la precoce eliminazione del 1974, l'Italia aveva decisamente cambiato rotta. Chiuso il lungo e glorioso ciclo del commissario tecnico Valcareggi, la nazionale era stata affidata all'anziano Fulvio Bernardini, che completò, fra le polemiche e le sconfitte, un eccellente lavoro di transizione, consegnando al suo successore Enzo Bearzot un nucleo di giovani sui quali costruire il futuro. Bearzot vi aggiunse un'impronta personale, ricreando uno spirito di gruppo che agli azzurri mancava dai lontani tempi di Vittorio Pozzo. La mossa decisiva del tecnico fu quella di inserire nella formazione titolare, all'ultimo momento, due talenti esordienti, il terzino Antonio Cabrini e il centravanti Paolo Rossi. Quest'ultimo, con il suo eccezionale senso del gol, conquistò gli argentini e si guadagnò un nomignolo, Pablito, che lo accompagnò per tutta la carriera. Quell'Italia fu una sorpresa per la critica estera, perché giocava un calcio coraggioso, d'attacco, avendo superato lo schema tradizionale, che privilegiava il gioco attendista e di rimessa. Il modulo tattico di Bearzot fu definito 'zona mista', perché parzialmente apriva alla zona d'ispirazione olandese, pur mantenendo alcune marcature individuali in fase difensiva: una contaminazione particolarmente efficace che avrebbe trovato quattro anni dopo, in Spagna, le soddisfazioni concrete mancate in Argentina.
2 giugno 1978, Estadio José María Minella, Mar del Plata Gli Azzurri festeggiano il gol della vittoria contro la Francia di Renato Zaccarelli, punto di inizio di uno splendido torneo |
Nell'altro raggruppamento, Argentina e Brasile pareggiarono 0-0 un match nervoso, dominato dal reciproco timore, mentre non ebbero problemi con le altre due avversarie. Il Brasile chiuse prima i suoi impegni con una differenza reti di +5, frutto del 3-0 al Perù e del 3-1 alla Polonia. L'Argentina aveva superato i polacchi per 2-0. Per accedere alla finalissima, doveva infliggere ai peruviani quattro gol di scarto. Il primo tempo terminò 2-0, ma nella ripresa il Perù, nella cui porta giocava Ramón Quiroga, argentino di nascita e sottoposto alla vigilia a forti pressioni, abbassò vistosamente la guardia e chiuse con un inglorioso 0-6. Inutilmente il Brasile lanciò l'accusa di combine. L'Argentina si apprestò a incontrare l'Olanda in un clima di grande entusiasmo popolare. Arbitro l'italiano Sergio Gonella, la partita riservò grandi emozioni. A 1 minuto dal termine, sul punteggio di 1-1, un tiro della punta olandese Robert Rensenbrink, a portiere battuto, colpì il palo; dieci centimetri più in là e sarebbe stata scritta un'altra storia. Nei tempi supplementari, peraltro, l'Argentina impose la propria tecnica e andò a rete altre due volte. Era una squadra potente, stretta in difesa attorno al leader Daniel Alberto Passarella, lucida a centrocampo con il regista Osvaldo Ardiles, fantasiosa in attacco con l'ala Daniel Bertoni e il goleador Mario Kempes. I favoritismi erano stati ripetuti e importanti, ma il vincitore non era tecnicamente indegno. Il Brasile batté l'Italia, ancora tradita dal suo campione simbolo, Zoff, sui tiri da lontano, e si aggiudicò il terzo posto. Erano state le due squadre migliori del Mundial e la consapevolezza di ciò fu per entrambe causa di profonda frustrazione.